Politica evirata: vince la finanza globale

Le cifre che attestano una clamorosa crescita del debito pubblico dopo anni di pesanti politiche di austerità e di rigore smontano gli assiomi cui anche il governo tecnico di Monti aveva aderito con un trasporto .



In verità, l’inefficacia delle politiche di rigore, come strumento magico per comprimere il debito, era scontata sin dall’inizio, almeno per chiunque avesse conservato un minimo di consapevolezza storica. Gli effetti di inevitabile recessione, per l’abbattimento dei consumi e per il congelamento della domanda interna che sempre i tagli e l’austerità scatenano, rigonfiano in breve tempo lo stesso debito, che pure per la sua entità aveva giustificato delle misure immediate per progettare la sua tempestiva potatura.

Le restrizioni della domanda sono tali da ostacolare la ripresa e la crescita e quindi sprigionano un’ondata recessiva che si prolunga con la potenza necessaria a vanificare tutti gli sforzi predisposti per afferrare il proteo sfuggente di un debito che scappa all’impazzata. Ancora una volta, il dogma ha prevalso sulla ragione, determinando inevitabili sciagure. Ma, si sa, la ragione in politica non riesce mai a suggerire alcunché di costruttivo se non trova anche delle forze sociali reali a suo sostegno.

Sta di fatto che per questa debolezza delle potenze politiche e sociali nel determinare altre risposte alla crisi, delle cose davvero assurde (soprattutto in tempi di crisi), come le modifiche costituzionali in materia di bilancio, sono state escogitate apposta per ostacolare – si direbbe – ogni politica pubblica efficace. Una divinità del tutto cieca ha imposto alle classi dirigenti della vecchia Europa la follia assurda di rispondere alla lunga crisi (che dura ormai da 7 anni) non rafforzando la politica, come principale luogo di un possibile piano razionale rispetto al calcolo dei mercati, ma evirandola in nome della venerabile sacralità dei santuari della finanza globale. E così, però, non ci sono alternative alle macerie.

La crisi non trova alcun rimedio e la rabbia, che inevitabilmente monta nelle pieghe della società, si scaraventa contro le fragili democrazie. La Grecia e l’Italia sono protagoniste dello stesso fenomeno. La rivolta contro la classe politica è un’operazione quasi meccanica, non obbedisce cioè alla fisiologia del ricambio, ma alla patologia di una crisi non gestibile, che miete vittime simboliche colpendo alla cieca, qualsiasi sia il colore dei governi in carica.

La cosiddetta antipolitica nasce dal risentimento e dall’angoscia che nascono in un paese reso sempre più ineguale, che vede a ogni manovra seguire un’altra manovra correttiva, ancora più pesante della precedente e purtroppo meno efficace della vecchia, ancora non assorbita, e pure della prossima, già in cantiere sempre in nome del rigore che non ha alternative, sebbene conclamata sia la sua irrazionalità e inefficacia. Quando una classe politica si sente obbligata a perseguire politiche che essa stessa avverte come inutili e persino dannose nel mantenimento delle basi di sostegno al regime, si annunciano tempi burrascosi.

Dalla crisi lunga o grande contrazione scoppiata nel 2007, non è ancora scaturita una risposta efficace da parte dei governi politici in Italia e in Europa. Nata dall’asimmetria creatasi negli ultimi trent’anni nel rapporto tra mercato e potere politico, tra capitale e lavoro, la crisi viene affrontata con delle sterili ricette che non fanno altro che ribadire la continuità del terreno marcio che ha provocato l’insorgenza dell’infezione all’origine dell’attuale collasso. La pretesa cura imposta dalle potenze europee (rigore, tagli, austerità) ribadisce la centralità del mercato, delle banche, della finanza e prevede poco spazio alle politiche pubbliche, alle misure di spesa sociale, al mantenimento dei diritti sindacali.

Così però la crisi economica galoppa senza argini e in più si scatenano tendenze degenerative pronte a essere raccolte dalle ingannevoli soluzioni populiste. La crisi sociale potrebbe in breve tempo spazzare via i soggetti tradizionali e anche taluni istituti classici del panorama continentale della democrazia rappresentativa. La decadenza democratica minaccia da vicino la tenuta del laboratorio europeo costruito nel Novecento come città della coesione grazie a politiche pubbliche capaci di inclusione e di redistribuzione della ricchezza.

L’impotenza dei governi nazionali, e quindi il tracollo delle stesse polarizzazioni destra-sinistra, che si nota nel vortice dell’emergenza, si origina dall’asimmetria tra lo spazio della decisione concesso agli esecutivi (rigore nazionale come opzione obbligata per sedare le turbolenze dei mercati) e l’ambito (almeno europeo) delle dinamiche economiche e finanziarie. La mancanza di una vera Europa politica, capace di coprire con il volto della sovranità l’effige debole della moneta, divora e uccide la flebile politica nazionale, che appare sempre più strapazzata come un gioco sterile nel risolvere la crisi.

A livello europeo si pone ormai la sfida per il recupero di efficacia della politica nei confronti dell’economia. Una lotta santa contro il debito, come è stata sinora imposta ai paesi scovati con i conti non in regola, ostacola la crescita e produce oscure infatuazioni populiste in ceti spinti alla disperazione che danno sfogo al risentimento ribellista. Solo un’altra Europa, dell’inclusione e della crescita, potrebbe inaugurare una stagione diversa e restituire un senso al principio di democrazia. Con la sua ostentata ottusità rigorista, che ignora il peso delle ineguaglianze nell’insorgenza della crisi strutturale, l’Europa sta scavando la fossa alla politica, cioè alla residua capacità di curare gli squilibri, le ansie, le alienazioni di ceti sociali molto impoveriti.

Non può che produrre effetti laceranti un cosiddetto risanamento strutturale concepito come smantellamento della cittadinanza sociale. Negli anelli più deboli dell’Europa, l’angoscia di masse senza prospettive e tutele, in preda a insidiose sensazioni di perdita di status, evoca passaggi che potrebbero rivelarsi regressivi e oscuri. La stessa Germania farebbe male a trascurare i segni di anomia, rivelatori di ansia. Non esiste a lungo una democrazia in un paese solo.

 


 

Nessun commento: