ITALIA,Decreto lavoro, miopia di governo
In tutti i paesi avanzati le politiche
pubbliche sono da tempo rivolte a incentivare gli investimenti delle
imprese in ricerca, innovazione, conoscenza e capitale umano. Per il
governo delle larghe intese invece le aziende italiane hanno bisogno di altro: lavoratori con basso livello di istruzione e macchine.
Il governo Letta ha da poco varato il decreto lavoro preceduto dal
decreto “del fare”. Oltre alla pochezza di risorse messe in campo, i due
decreti condividono un altro più grave aspetto: quello di accentuare lo
stato di arretratezza del nostro sistema economico. Con la scusa
dell’emergenza, il governo rinuncia a interventi lungimiranti,
incentivando invece le imprese ad assumere lavoratori che costano poco e
acquistare macchinari. L’opposto di quello che dovrebbero fare le
aziende di un paese avanzato nell’era dell’economia della conoscenza.
L’aspetto sconfortante del decreto lavoro è che le agevolazioni per le
assunzioni a tempo indeterminato riguardano i giovani sotto i 30 anni
privi, addirittura, del diploma di scuola secondaria superiore. I
laureati, infatti, le imprese italiane non li vogliono. D’altro canto,
un diplomato costa di più di un giovane senza titolo di studio.
L’obiettivo del governo è quindi quello di massimizzare i posti di
lavoro con le poche risorse a disposizione. Poco importa che si tratti
di mansioni a bassissima qualifica (siamo in emergenza, soprattutto nel
Mezzogiorno). Poco importa che il messaggio inviato alle famiglie sia
esiziale per il futuro del nostro paese (meno istruzione più opportunità
di lavoro per i figli).
Meno scalpore ha destato una misura
introdotta nel decreto “del fare” che, a mio avviso, segue la stessa
logica miope e retrograda: i finanziamenti a tasso agevolato per
l’acquisto di nuovi macchinari, impianti e attrezzature da parte di
piccole e medie imprese (Pmi). Si tratta di contributi pubblici in conto
interesse, non a fondo perduto: in sostanza, le imprese riceveranno un
contributo pari a circa la metà degli interessi richiesti dalle banche
che finanzieranno i loro acquisti di macchinari. I finanziamenti
agevolati ammonteranno a 2.5 miliardi di euro che potranno (ma non
necessariamente) arrivare a 5. Sembrano tanti soldi ma si distribuiscono
su otto anni (dal 2014 al 2021). A fronte di questi crediti (debiti per
le imprese), i contributi pubblici che abbatteranno gli interessi
ammonteranno a circa 190 milioni, sempre distribuiti su otto anni.
Per il 2014, i contributi previsti sono solo 7.5 milioni di euro a cui
dovrebbero corrispondere poco più di 100 milioni di finanziamenti.
Supponendo un investimento medio per impresa di 200 mila euro (non molto
per un macchinario avanzato), nel prossimo anno potranno beneficiare di
questo intervento 500 Pmi italiane (solo nell’industria ce ne sono
circa 500 mila). Ognuna risparmierà circa 13 mila euro di interessi.
Le banche che concederanno i finanziamenti potranno intascare tassi di
interesse alti mentre il credito concesso avrà come garanzia reale il
macchinario. Per loro, quindi, si tratta di un altro grande affare a
basso rischio e alto rendimento (e potranno anche dire di aver aumentato
i crediti al sistema produttivo!).
Per le Pmi in grado di
indebitarsi il vantaggio, come abbiamo visto, sarà limitato. Ma per fare
cosa? Semplicemente, quello che qualsiasi impresa deve fare a cadenze
temporali più o meno lunghe: sostituire gli impianti e macchinari
obsoleti o usurati con dei nuovi. Non è quindi pensabile che, in
presenza di questi bassi incentivi e a fronte di incerte prospettive, le
Pmi italiane anticiperanno il processo di sostituzione o addirittura
espanderanno la loro capacità produttiva. I benefici, seppur modesti,
andranno alle imprese che questi investimenti li avrebbero fatti
comunque. Anche assumendo che i nuovi macchinari non andranno a
sostituire lavoro, l’incremento dell’occupazione generato da questi
investimenti sarà pressoché nullo.
Si potrebbe obiettare che con
questo intervento aumenterà il fatturato e l’occupazione delle imprese
italiane che producono macchine, come è avvenuto, in Italia, con la
Legge Sabatini. Questa, introdotta nel 1965 e rifinanziata con successo
per altri 25 anni e più, introdusse il credito agevolato per l’acquisto
di macchinari e diede un grande impulso all’industria meccanica
italiana. Tra l’altro, essa prevedeva che gli stessi venditori di
macchine potessero scontare, a tassi agevolati, i loro crediti presso le
banche.
Ma i tempi sono cambiati, e parecchio!
La legislazione
dell’Unione europea non consente più, come avveniva nel passato, di
assegnare una corsia preferenziale ai produttori italiani. Ne consegue
che, attualmente, i vantaggi indiretti di un intervento simile
andrebbero condivisi con molti altri produttori europei i quali, avendo
investito di più in ricerca, innovazione e servizi post-vendita, sono in
grado di offrire soluzioni sempre più avanzate e appetibili per le Pmi
italiane.
Ma ciò che più rileva è un altro elemento. Gli anni
Settanta e Ottanta videro l’emersione e lo sviluppo del modello di
industrializzazione diffusa nelle regioni del centro e del nord-est.
Questo processo determinò un flusso rilevante di investimenti in
macchinari e impianti a cui si associavano incrementi occupazionali.
Anche negli anni Ottanta le Pmi che investivano di più in capitale
tangibile erano quelle che aumentavano gli addetti. Si trattava quindi
di investimenti espansivi, non di rimpiazzi. Inoltre, i nuovi macchinari
consentivano alle aziende non solo di aumentare la produttività ma
anche lo spettro di fasi produttive e prodotti.
Incentivare oggi
questa strategia competitiva basata sugli investimenti in capitale
fisico è una scelta folle e irresponsabile. La stessa macchina che può
acquistare un’impresa italiana può essere utilizzata, in modo
altrettanto efficace, da tantissime imprese localizzate in molti e
differenti paesi, non solo europei. Attualmente, la competitività delle
Pmi italiane risiede nella loro autonoma capacità di innovare
soprattutto i prodotti, le modalità organizzative, gestionali e
commerciali. Tale capacità dipende dagli investimenti immateriali che le
imprese riescono a cumulare e che, una volta raggiunta una soglia
consistente, si degradano più lentamente degli investimenti in capitale
fisico.
È per questo che in tutti i paesi avanzati le politiche
pubbliche sono da tempo rivolte a incentivare gli investimenti delle
imprese in ricerca, innovazione, conoscenza e capitale umano. Dovevamo
aspettare il governo delle larghe intese per sentirci dire che le
aziende italiane, invece, hanno bisogno d’altro: lavoratori con basso
livello di istruzione e macchine.
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