Della “rivoluzione silenziosa” islandese che tanto stà affascinando gli italiani e il resto d’Europa, i media se ne guardano bene dal parlarne, nessuna trasmissione televisiva, partito di governo o di opposizione, attraverso cui viene esercitato il “controllo sociale”, hanno mai preso in considerazione il “modello Islanda” come via maestra o, quantomeno, possibilità per i Paesi liberi di uscire dalla crisi finanziaria.
Per contro, ogni giorno
quotidiani, telegiornali, trasmissioni televisive specializzate, politologi,
economisti, etc., asserviti agli interessi della lobby di banchieri e galassie
finanziarie che controllano l’economia mondiale, ci bombardano con soluzioni
sempre più capziose e vessatorie per azzerare la sempre crescente voragine del
debito pubblico provocato dalla sistematica rapina di ogni risorsa pubbica da
parte del sistema dei partiti e dall’assenza di un piano di crescita fondato
sui bisogni del Paese e il rispetto dei diritti del popolo italiano. Dal secolo
scorso è stato realizzato un sistema planetario
socio-economico-politico-militare complesso capace di dominare, condizionare e
indirizzare le politiche dei Paesi membri e le stesse scelte dei governati,
realizzando ciò che in sociologia viene definito “controllo sociale“, ovvero il
consenso ma soprattutto il dissenso, onde consentire di mantenere inalterato il
dominio e i privilegi di pochi sulla massa dei cittadini-sudditi. L’Islanda è
un tabù perché rappresenta l’alfa di nuovi comportamenti collettivi, che
attraverso la diffusione di valori etici, morali e cognitivi più confacenti ai
tempi e allo sviluppo dei moderni rapporti sociali e di produzione, apporterà
un profondo e innarestabile mutamento socio-economico-culturale su scala
europea, aprendo una nuova primavera e, per quanto possa riguardare il nostro
Paese, un nuovo Rinascimento italiano, destinato ad allargarsi, come fu in
passato, a macchia d’olio a tutta l’Europa, affermando il principio per cui la
volontà del popolo sovrano deve prevalere
su qualsiasi accordo o pretesa internazionale (N.d.R.)
Lontano dai riflettori. Islanda,
quando il popolo sconfigge l’economia globale
L’hanno definita una ‘rivoluzione
silenziosa’ quella che ha portato l’Islanda alla riappropriazione dei propri
diritti. Sconfitti gli interessi economici di Inghilterra ed Olanda e le
pressioni dell’intero sistema finanziario internazionale, gli islandesi hanno
nazionalizzato le banche e avviato un processo di democrazia diretta e
partecipata che ha portato a stilare una nuova Costituzione. Una rivoluzione
silenziosa è quella che ha portato gli islandesi a ribellarsi ai meccanismi
della finanza globale e a redigere un’altra costituzione. Oggi vogliamo
raccontarvi una storia, il perché lo si capirà dopo. Di quelle storie che
nessuno racconta a gran voce, che vengono piuttosto sussurrate di bocca in
orecchio, al massimo narrate davanti ad una tavola imbandita o inviate per
e-mail ai propri amici. È la storia di una delle nazioni più ricche al mondo,
che ha affrontato la crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese
industrializzato e ne è uscita nel migliore dei modi. L’Islanda. Già, proprio
quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto alla cronaca per
vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi bianchi sono in grado di
congelare il traffico aereo di un intero emisfero, ha dato il via ad
un’eruzione ben più significativa, seppur molto meno conosciuta. Un’esplosione
democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo,
che porta con se messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta,
autodeterminazione finanziaria, annullamento del sistema del debito.
Ma procediamo con ordine.
L’Islanda è un’isola di sole di 320mila anime – il paese europeo meno popolato
se si escludono i micro-stati – privo di esercito. Una città come Bari spalmata
su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell’intera
Italia, situato un poco a sud dell’immensa Groenlandia. Quindici anni di
crescita economica avevano fatto dell’Islanda uno dei paesi più ricchi del
mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il modello di ‘neoliberismo
puro ’ applicato nel paese che ne aveva consentito il rapido sviluppo avrebbe
ben presto presentato il conto. Nel 2003 tutte le banche del paese erano state
privatizzate completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare
gli investimenti stranieri, adottando la tecnica dei conti online, che
riducevano al minimo i costi di gestione e permettevano di applicare tassi di
interesse piuttosto alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano
Conto Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi avevano
depositato i propri risparmi. La Landsbanki fu la prima banca a crollare e ad
essere nazionalizzata in seguito al tracollo del conto IceSave. Così, se da un
lato crescevano gli investimenti, dall’altro aumentava il debito estero delle
stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento del prodotto interno lordo
islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era arrivato al 900 per cento. A dare
il colpo definitivo ci pensò la crisi dei mercati finanziari del 2008. Le tre
principali banche del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero
in fallimento e vennero nazionalizzate; il crollo della corona sull’euro – che
perse in breve l’85 per cento – non fece altro che decuplicare l’entità del
loro debito insoluto. Alla fine dell’anno il paese venne dichiarato in
bancarotta. Il Primo Ministro conservatore Geir Haarde, alla guida della
coalizione Social-Democratica che governava il paese, chiese l’aiuto del Fondo
Monetario Internazionale, che accordò all’Islanda un prestito di 2 miliardi e
100 milioni di dollari, cui si aggiunsero altri 2 miliardi e mezzo da parte di
alcuni Paesi nordici. Intanto, le proteste ed il malcontento della popolazione
aumentavano. A gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle
dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari internazionali
spingevano perché fossero adottate misure drastiche. Il Fondo Monetario
Internazionale e l’Unione Europea proponevano allo stato islandese di farsi carico del debito insoluto delle banche,
socializzandolo. Vale a dire spalmandolo sulla popolazione. Era l’unico modo, a
detta loro, per riuscire a rimborsare il debito ai creditori, in particolar
modo a Olanda ed Inghilterra, che già si erano fatti carico di rimborsare i
propri cittadini. Il nuovo governo, eletto con elezioni anticipate ad aprile
2009, era una coalizione di sinistra che, pur condannando il modello
neoliberista fin lì prevalente, cedette da subito alle richieste della comunità
economica internazionale: con una apposita manovra di salvataggio venne
proposta la restituzione dei debiti attraverso il pagamento di 3 miliardi e
mezzo di euro complessivi, suddivisi fra tutte le famiglie islandesi lungo un
periodo di 15 anni e con un interesse del 5,5 per cento. I cittadini islandesi
non erano disposti ad accettare le misure imposte per il pagamento del debito. Si
trattava di circa 100 euro al mese a persona, che ogni cittadino della nazione
avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un totale di 18mila euro a testa per
risarcire un debito contratto da un privato nei confronti di altri privati.
Einars Már Gudmundsson, un romanziere islandese, ha recentemente affermato che
quando avvenne il crack, “gli utili [delle banche, ndr] sono stati privatizzati
ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i cittadini d’Islanda era
decisamente troppo. Fu qui che qualcosa si ruppe. E qualcos’altro invece si
riaggiustò. Si ruppe l’idea che il debito fosse un’entità sovrana, in nome
della quale era sacrificabile un’intera nazione. Che i cittadini dovessero
pagare per gli errori commessi da un manipoli di banchieri e finanzieri. Si
riaggiustò d’un tratto il rapporto con le istituzioni, che di fronte alla
protesta generalizzata decisero finalmente di stare dalla parte di coloro che
erano tenuti a rappresentare. Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar
Grímsson, si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere tutto il peso
della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse, su richiesta di questi
ultimi, un referendum, di modo che questi si potessero esprimere. La comunità
internazionale aumentò allora la propria pressione sullo stato islandese.
Olanda ed Inghilterra minacciarono pesanti ritorsioni, arrivando a paventare
l’isolamento dell’Islanda. I grandi banchieri di queste due nazioni usarono il
loro potere ricattare il popolo che si apprestava a votare. Nel caso in cui il
referendum fosse passato, si diceva, verrà impedito ogni aiuto da parte del
Fmi, bloccato il prestito precedentemente concesso. Il governo inglese arrivò a
dichiarare che avrebbe adottato contro l’Islanda le classiche misure antiterrorismo:
il congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi. “Ci è stato
detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba del nord – ha continuato
Grímsson nell’intervista – ma se accettiamo, saremo l’Haiti del nord”. I
Cittadini islandesi hanno votato per eleggere i membri del Consiglio
costituente. Quindi ,a marzo 2010, il
referendum venne stravinto, con il 93 per cento delle preferenze, da chi
sosteneva che il debito non dovesse essere pagato dai cittadini. Le ritorsioni
non si fecero attendere: il Fmi congelò immediatamente il prestito concesso. Ma
la rivoluzione non si fermò. Nel frattempo, infatti, il governo – incalzato
dalla folla inferocita – si era mosso per indagare le responsabilità civili e
penali del crollo finanziario. L’Interpool emise un ordine internazionale di
arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. Gli altri
banchieri implicati nella vicenda abbandonarono in fretta l’Islanda. In questo
clima concitato si decise di creare ex novo una costituzione islandese, che
sottraesse il paese allo strapotere dei banchieri internazionali e del denaro
virtuale. Quella vecchia risaliva a quando il paese aveva ottenuto
l’indipendenza dalla Danimarca, ed era praticamente identica a quella danese
eccezion fatta per degli aggiustamenti marginali (come inserire la parola ‘presidente’
al posto di ‘re’). Per la nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne
eletta un’assemblea costituente composta da 25 cittadini. Questi furono scelti,
tramite regolari elezioni, da una base di 522 che avevano presentato la
candidatura. Per candidarsi era necessario essere maggiorenni, avere l’appoggio
di almeno 30 persone ed essere liberi dalla tessera di un qualsiasi partito. Ma
la vera novità è stato il modo in cui è stata redatta la magna charta. “Io
credo – ha detto Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio costituente – che
questa sia la prima volta in cui una costituzione viene abbozzata
principalmente in Internet”. L’Islanda ha riaffermato il principio per cui la
volontà del popolo sovrano deve prevalere su qualsiasi accordo o pretesa
internazionale. Chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti
ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online
e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte.
Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in
stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. La costituzione scaturita da
questo processo partecipato di democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio
del parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni. Ed eccoci così
arrivati ad oggi. Con l’Islanda che si sta riprendendo dalla terribile crisi
economica e lo sta facendo in modo del tutto opposto a quello che viene
generalmente propagandato come inevitabile. Niente salvataggi da parte di Bce o
Fmi, niente cessione della propria sovranità a nazioni straniere, ma piuttosto
un percorso di riappropriazione dei diritti e della partecipazione. Lo sappiano
i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita del settore pubblico era
l’unica soluzione. E lo tengano a mente anche quelli portoghesi, spagnoli ed
italiani. In Islanda è stato riaffermato un principio fondamentale: è la
volontà del popolo sovrano a determinare le sorti di una nazione, e questa deve
prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per questo nessuno
racconta a gran voce la storia islandese.
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